19silvia76
, 33/36 anni
Coppia
Milan,
Italia
Ultima visita: 1 anno fa
- 1 anno fa la cena Cosa ci faccio dentro questo ristorante accanto ad un cameriere che mi sta servendo un filetto di cernia? Di fronte c’è un uomo che appena conosco, che un’amica comune ci ha presentati da appena tre giorni. Mi guarda e sorride come se già ci fosse un’intesa, come se l’avermi strappato un invito gli dia l’assenso di scrutarmi nel fondo degli occhi. Cosa ci faccio davvero dentro questo locale soffuso? Seduta sopra questa sedia di stoffa salmone, che avrà ospitato mogli senza mutande ed amanti scomparse prima di finire in un letto d’albergo. Davanti a queste parole sussurrate con un filo di fiato, che hanno lo stesso gusto di un antipasto all’aceto, cerco di non pensare a quello che tra poco m’aspetta, a quello che nell’aria tutti e due respiriamo. Tra poco mi parlerà di sua moglie, che se non fosse per sua figlia chissà in quale volo di gabbiani potrei vederlo planare, ed invece mi è qui di fronte che muove la bocca, le mani da amante perfetto, che delicato stringe un calice pieno come se fosse una tetta. Tra qualche minuto naufragherà nei miei occhi e ci vedrà acqua marina, fiumi di vita che attraversano deserti. Continuerà imperterrito ad elogiarmi, fino a farmi domandare per quale diavolo di motivo stasera ho preferito questa finta commedia, a qualcuno che quando mi guarda non ci vede nemmeno un canale di Ostia. Eppure da tre giorni aspettavo solo che mi chiamasse, avevo già deciso il vestito, la gonna senza dare nell’occhio, il posto lungo le scale dove avrei tolto la sottogonna, slacciato un bottone della camicetta di seta, per essere all’altezza del ruolo che questa sera, la prima, non mi facesse pentire di non aver osato abbastanza. Perché altre volte è successo e Cecilia dice che non c’è altra cura di uno sguardo che penetra, che questa noia nella pelle e nel cuore si abbatte soltanto col desiderio di un uomo. A quest’ora mio marito avrà già spento la luce, ma tanto so già che non dorme, che m’aspetta sveglio ogni volta che esco. M’immagina in un cinema o in un pub con la mia amica Cecilia, a parlare di cose di donne, mentre io sono qui a farmi guardare il merletto del reggiseno che esce, che vezzoso traspare dentro questa serata che ancora non ha avuto un inizio. Lui mi fissa l’incavo facendo finta di guardare nel vuoto, ma lo vedo che è gonfio di voglia, almeno di sapere se i miei capezzoli sono grandi, se sono chiari come un ciuccio coperto di zucchero a velo. Eccolo, ora poggia la mano sul tavolo sperando di incontrare la mia, tutto in maniera fortuita, lasciando al casoil contatto di pelle che non compromette nessuno. Ma io perché sono uscita? Perché dovrei stringere questa mano che chiede? Perché dovrei guardarlo negli occhi e confondere intimità che gelosa riparo, che gelosa trattengo, perché i dubbi d’essere nel posto sbagliato sono ancora più vivi, di qualsiasi disillusione che sento ogni giorno nel cuore. Lo lascio con la mano in attesa e m’alzo per andare in bagno. Ecco ora mi starà vedendo da dietro, di fianco, sicura che apprezzerà questo spacco che lacera in due la gonna e i suoi occhi che finti guardano il piatto. Di sicuro avrà notato il ricamo che fa bordo alla mia calza, che fino all’ultimo in dubbio mi sembrava inadatta, ma davanti allo specchio volevo essere bella, femmina come da tempo non mi sono sentita, amante che cura il dettaglio, contro l’altra me stessa che passa le sere in tuta o in pigiama Dentro questo bagno minuscolo mi domando qual è il punto, il limite dove voglio arrivare, ma poi non rispondo e mi rifaccio il trucco, rimarco il contorno di labbra per farle apparire più grandi e più gonfie, per dare una riposta netta ai miei dubbi, alla mia coscienza che per scaricarsi ogni peso vorrebbe addirittura chiamare casa e dirgli di non preoccuparsi, che Cecilia è vicino e ci stiamo divertendo. Ma io non mi sto divertendo! E poi cosa gli dico? Che un uomo che lui non conosce mi aspetta voglioso dentro una saletta appartata che sa di segreto e proibito, che non ci vuole poi molto a pensare che siamo due amanti, che lui è gonfio di voglia perché ha visto uno spicchio di calza, che io mi spalmo rossetto dandogli un segno, un limite dove può inoltrarsi, dove sono disponibile a cedere senza far la figura d’una ***** qualunque. Torno al tavolo e quella mano non ha cambiato di posto, è più vogliosa e più rossa, al cospetto di chi imprudente s’è rifatta il trucco tra il pesce e la frutta. Ecco tra poco mi dirà che m’ha sempre sognata, che da tre giorni non dorme, mentre la sua mano aperta sta gridando in attesa, che aspetta almeno il mio fiato per stringersi a pugno. Devo decidere, poggio il bicchiere vicino alla sua mano senza toccarla, finché i nostri indici si sfiorano, i nostri medi si toccano ed i pollici si incatenano. Non riesco a guardarlo, forse già mi pensa nuda nel letto, in qualche albergo qui vicino che di sicuro conosce. Forse mi pensa vestita, distesa che aspetto, o in piedi con la gonna arrotolata ai fianchi, sbattuta contro uno zoccolo di muro che sarà la sua passione, la soddisfazione del suo ardore che ora sento attraverso un dito, una mano che non mi lascerà per tutta la cena. Mi parla della sua villa in mezzo ad un parco d’olivi, dei suo tre pastori tedeschi e della cagna bastarda che ha partorito da poco. Ripenso a Cecilia: “Almeno ricchi, se d’altro non potremo mai sperare!” La sua mano trema, avverto un fremito nato distante, è evidente che sta pensando ad altro, a come spartire intimità e convinzione che una donna a quest’ora è solo da letto e questo spacco che vede non può che finire in una voglia che s’apre, che aspetta. Forse sta pensando che l’ha presa troppo lontana, che magari avrebbe potuto saltare il ristorante, la cena e queste parole smielate che ritardano il momento preciso d’allungare la mano. Fanno perdere tempo alla voglia che autonoma s’ingrossa nella certezza che una donna come me non scopa da tempo e non vede l’ora che ci portino il conto. Le sue dita mi bucano la pelle, le sento, vorrebbero stare da qualche altra parte, sfiorare il bianco del mio merletto, il nero del mio nylon che ora sfacciato si mostra. Lo sento, ora davvero manca niente, toccare di gusto una donna sposata, toccargli lentamente il calore tra le gambe che s’accavallano poco convinte, mentre guarda gli occhi che si fanno più bianchi, guarda l’indecenza di darsi vedendo mano mano il contegno che cala, l’aria da signora per bene che rimane un ricordo come l’antipasto d’aceto o i discorsi per dire sui pastori tedeschi. Lo vedo che pensa, che si domanda di nuovo quando ho fatto l’amore l’ultima volta. E come, e dove l’ho fatto. Dentro un letto di casa o una macchina in pieno parcheggio sotto il sole d’agosto. Se rimango fredda in attesa o scollego il cervello, se mi piace annusare il piacere che cola e nel mentre mi faccio sussurrare cagna bastarda come il suo cane nel parco d’olivi. Eccola quella mano! Nessuna ragione può più trattenerla, perché il desiderio diventa una sfida e sbaraglia la stoffa come se fosse un velo gonfiato dal vento. Magari sta pensano se offro me stessa ovunque l’aggrada, la parte dove un uomo impazzisce e, chissà per quale ragione, la desidera per sentirsi più maschio. Eccola che risale la gamba, premurosa si ferma e poi riparte decisa, stringendo la pelle per sentirla più soda, per misurare il tempo che manca alla meta che non può più essere distante. Mi domando perché ora non lo fermo, perché lo lascio pensare che sta accarezzando una preda dove s’accomodano uomini diversi perché gli è andato a genio il contorno. Il cameriere ci guarda ed io mi sento a disagio. Perché poi mai? In fin dei conti era quello che volevo, farmi sbrindellare mutande da una mano infuocata, farmi cercare nel punto dove da mesi non sento carezze, come se qui, in questo momento, stessi proseguendo il mio sogno ricorrente. Sorrido pensando che ne sono ancora capace, mi chiedo quale molla l’abbia fatto scattare, quale dettaglio gli abbia permesso di non avere timore, lo spacco della gonna o il reggiseno imbottito, le mie labbra più gonfie o semplicemente che sono sposata. Questa mano che sento non ha morale né legge, eccola la sento, ormai davvero manca un nonnulla, con l’altra parla, fuma e mi versa del vino, con gli occhi m’ascolta perché io continuo a parlare di Cecilia, dei suoi tanti uomini, dei suoi tanti problemi. Ma credo che io sia l’unico problema! Cosa ci faccio con questo sudore straniero tra le mie cosce, lui insiste e mi fa voglia, per un attimo desiste e spero che non fugga, per un attimo si ferma e spero che non torni all’assalto di queste flebili resistenze che lui neanche avverte. Perché sono mie, sono dentro, sono tra l’anima e la pelle, sono tra la ragione e mio marito che ora avrà spento la luce, che ora mi starà pensando dentro una leggera premura che s’ingrandirà con le ore. Sapesse invece cosa c’è tra le mie gambe, una mano d’un altro, ossessiva e padrona, che il cameriere non vede, che mi scava e mi ripulisce da questo velo di polvere che nel tempo si è fatto imene. Lui insiste e continua ad entrare, ha scelto il dito medio perché forse è il più grande. Risale la corrente per il gusto di scovare la causa di come una femmina in questo momento spalanchi le gambe e gli renda facile il percorso, di come una femmina continui a parlare e si fa cercare nei buchi l’essenza, davanti ad un cameriere che in piedi ci guarda ed a questo punto non può non essersi accorto di cosa fibrilla sotto la tavola e che l’antipasto sotto la gonna sta diventando primo e secondo, e poi frutta e poi dolce, e poi ancora vino che sento nella testa tra l’incavo del mio seno, in ogni dove che fa buco e fa da culla, che fa d’ansia e fa da letto che stupida stasera ho pensato di finirci. A Cecilia racconterò che l’amore è rimasto sopra la gonna, su una terrazza al Gianicolo che ci faceva contorno, le racconterò delle balle perché non posso dirle che sto spalancando le mie gambe, che ora quello che sento non è solo un dito. Non posso dirle che ho ceduto prima di resistere, che neanche un fremito mi ha fatto stringere le gambe, che neanche uno starnuto ha deviato il percorso. Eccola la mano, la sento. Si muove libera e padrona, carica di consapevolezza e di boria che nessun’altro piacere potrebbe essere meglio, che nemmeno l’amore contro un tramonto sarebbe lo stesso. Scivolo lungo la spalliera, impercettibilmente m’abbandono, non ci saranno suite d’alberghi col Gianicolo che fa da contorno, non ci saranno lenzuola di seta o una vasca grande come una piscina dopo l’amore. C’è solo questo dito che ora confondo, questa mano che stringe e che copre tutto il piacere che io dispongo. Mai l’avrei immaginato di colare piacere mentre lui continua a parlare di moglie e lavoro, di tennis e d’orologi che sono la sua passione. Mai l’avrei immaginato di farmi finire sopra questa sedia ed urlargli col bianco degli occhi di non smettere, d’arrivare oltre il timore che s’è fatto bisogno. 4403 1 12 anni fa
- 1 anno fa Prestazione professionale Prestazione professionale Per scopare le turiste, in Romagna ci sono i bagnini. Dalle mie parti i maestri di sci. Come si dice, è un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Le due categorie, comunque, a studiarle bene, dico da molto ma MOLTO vicino, presentano svariati aspetti in comune. Tanto per cominciare, l'abbronzatura. Anche se, per intuibili ragioni climatiche, solo i bagnini sono abbronzati dappertutto (o quasi dappertutto, se afferrate l'elegante allusione). I maestri di sci, invece, esibiscono un colorito tra il cuoio da sella e la terracotta giusto sulla faccia e il collo; tutt'al più, in annate particolarmente calde, c'han sulle braccia un bel segno della manica tipo muratore. Altrove, son bianchi mozzarella. Il che, in certi momenti che si vorrebbero intimi, può scatenare inopinate crisi di ilarità, sicché, ragazze, occhio. Le affinità si accentuano passando per così dire dall'esterno all'interno: sia i bagnini sia i maestri di sci fanno prova di una concezione allegrotta dell'esistenza, nonché di una bella resistenza alle bevande alcoliche. La specie maestro di sci, però, si divide ulteriormente in due sottoclassi, quella dei veri e propri maestri di sci e quella degli insegnanti di snowboard, o surf, o tavola che dir si voglia. I primi sono, come dire, il modello più casalingo e ruspante, che trova il suo giusto abbinamento con le fiaccolate, i canti alpini e la barberassa. Che dopo le fiaccolate e la barbera te la bussino lo stesso, intendiamoci, è garantito. Ma nel complesso risultano un rigo più affidabili dei maestri di surf, i selvaggi della categoria, irti di dreadlocks e accessoriati di braghe larghe e maglioni informi sotto i quali, tra l'altro, non è possibile valutare appieno la merce contenuta, cosa assai rischiosa per le possibili acquirenti. Avvertenza: se un maestro di surf vi parla di hard e di soft, non ringalluzzitevi subito. Non vi sta proponendo del sesso e nemmanco la visione di un film porno, ma parla di tavole, o di stili. Ma non disperate: con la stessa nonchalance con cui dodici ore prima vi ha buttato giù da un dirupo in groppa a uno snowboard, con lo stesso aplomb con cui, all'ora dell'aperitivo, vi ha infilato la lingua in bocca davanti a cinquanta sconosciuti, giunti al digestivo vi biascicherà romanticamente all'orecchio "perché non vieni in camera mia che te lo metto nel culo, tesoro". Il che presuppone, nella donzella in questione, per lo meno una bella presenza di spirito o la Nivea sempre a portata di mano. Beh, l'eroe della nostra storia non è per niente un tipo così. Anche se maestro di surf, il ragazzo è laureando in ingegneria, ancorché ambientale, ha lunghi capelli biondi e ricci che NON pettina con i petardi ed è dotato di due fantastici occhi verde-erba con lunghe ciglia tipo Bambi. Nonché di un culo a cui manca la solo la parola e di un pacco di tuttissimo rispetto, che gli gonfia discretamente la cerniera dei jeans blu-denim. Insomma, un gran bel giocattolino. Che, fra l'altro, tutte ma proprio tutte le mie amiche si sono già fatte, raccontandomi le sue doti in lungo e in largo (più in lungo che in largo, a ben ricordare). E io chi sono, Babbo Natale? Sicché, eccomi qui che dopo aver aspettato con ansia la fine della stagione (durante la quale avrei dovuto competere con una compilation di inglesine sedicenni, prova palesemente al di sopra delle mie forze) lo attendo al varco qui a valle, in un locale noto come riserva della specie. Puntuale come un orologio, bello come un mattino d'estate, il nostro si materializza intorno all'una; dopo due ore di gin tonic e una giornata di lavoro sul gobbo io non sono proprio al mio massimo, ma mi rianimo, sistemo il push-up e mi gli faccio incontro, inalberando dentatura candida e una mini da arresto. Il biondo mi saluta vago, strascicando oltre lo strascicabile la sua voce bassa e morbida; ancora non è entrato, che già mi appare dotato del mojito d'ordinanza. Si aggancia languido al bancone, camicia blu aperta sui pettorali lisci e moderatamente abbronzati (Caraibi? Lampados? e chi lo sa) e iniziamo una conversazione quasi interamente sostenuta dalla sottoscritta: lui sorride, annuisce, e inerpica due dita pigre su per il mio braccio destro fino ad approdarmi alla spalla e poi dietro l'orecchio. Sento già ribollirmi la faccia, e non soltanto quella. Lui giocherella coi miei orecchini e mi si appoggia al fianco, minando gravemente la mia lucidità mentale quando, nel girarsi verso il bancone per ordinare una birra (come? Ha già finito il mojito? ) mi struscia il pacco contro la coscia, e mi respira per un momento contro la gola. Ha il fiato caldo e dolce di menta, pensa te com'è il sapore. Mi sorride, il tesoruccio. A me e a quasi tutte le donne presenti, a essere sincera, perciò il difficile dovrebbe essere scrostarlo più che dal bancone dalle rapaci braccia femminili che si protendono verso di lui da ogni parte... ma finalmente, svariati drink alcolici pù tardi, si è fuori. "Facciamo due chiacchiere nella mia macchina?" aristrascica il nostro, allacciandomi la vita nella romantica atmosfera del parcheggio, così inebriante col suo dolce aroma di benzene. "La sua macchina" si rivela un'infernale spider che starebbe stretta alla Barbie. Bene, direi. Che qui più si sta stretti e meglio è. Le sue dita si incamminano lungo la mia coscia, che si è ulteriormente scoperta mentre sedevo in auto; le mutande non mi si vedono per un solo motivo, che probabilmente, minime come sono, sono scomparse su per la passera. Lo guardo mentre apre il cassettino, cerca qualcosa, scarta e si mette in bocca un gomma da masticare, poi si volta a mezzo dalla mia parte e sussurra: "Ne vuoi una anche tu... o vuoi assaggiare la mia?" Deglutisco a vuoto, sentendomi deficiente. Fortuna che la domanda era retorica. Lui si avvicina al rallentatore, mi poggia l'altra mano sulla guancia, abbracciandomela, e mi infila la lingua in bocca, gomma da masticare inclusa. Mi esplora con tutta calma, riprendendosi e ridandomi il chewingum, mentre la sua sinistra veleggia dalle parti dove dovrebbe trovarsi il perizoma, se ancora ci fosse. Lo sento, fradicia come sono gli rovinerò per sempre la pelle del sedile. Tra l'altro, mica facile farla venir pulita, 'sta tinta. Le dita del fanciullo da una parte mi accarezzano teneramente una guancia, e dall'altra mi affondano sempre più fra le cosce; e sono dita abili, cazzarola, mobili ed eccitanti da morire. Mi lascia la bocca solo per iniziare pigramente a leccarmela, dentro e fuori, gli occhioni chiusi e i riccioli biondi che mi sfiorano la faccia. Poi, quando meno me lo aspetto: Bingo! la sua mano sinistra ce l'ha fatta ad agganciare il mio perizoma, lo tira e se lo arriccia fra le dita, sollecitandomi violentemente labbra e clitoride, già agitati di loro: fa scorrere le dita sotto la stoffa, mi penetra appena, pizzica, struscia, accarezza, insomma dà fondo a tutto il repertorio, e senza mai smettere di giocare con la mia bocca. Non so dove ha imparato questa roba, ma il Cepu son sicura che non c'entra. L'altra mano si tuffa nello scollo della maglietta, mi preme il palmo contro un capezzolo, in un lento moto circolare. Mi gira verso di lui, infila deciso un ginocchio fra le mie cosce, poi armeggia con la cerniera dei jeans. Oggesù, stai a vedere che l'uomo mi vuole scopare qui, coram populo, in un parcheggio illuminato a giorno e comoda come nel cestello della lavatrice. Eh no, cicciuzzo, con tutta la fatica che ho fatto per arrivare fin qui almeno un letto me lo devi! Lo dissuado con mielate parole (e staccandogli a forza la mano dalla mia passera), inducendolo a trasferirsi nel mio lindo appartamento di zitella emancipata. Sul mio divano il nostro si appoggia morbidamente ai cuscini, si stiracchia e: sbadiglia. Come sarebbe a dire sbadiglia, boia mondo? Se dieci minuti fa ho dovuto disincagliarlo con le cattive dalle mie grandi labbra, adesso c'ha sonno, il piccolo? Non si fa così, non si fa! Mi siedo vicino a lui e mi struscio, mandando la mano destra a pascolare fra i pochi bottoni ancora allacciati della sua camicia. Ha la pelle fresca e liscia, come quella di una donna. Sta a vedere che si depila, il pupo. Non che me ne lamenti, anzi. Abbasso la testa, e gli infilo il naso nel collo, gli bacio dolcemente la gola, poi scendo a sbaciucchiargli il torace. Quando inizio a mordicchiargli i capezzoli, bontà sua, si rianima, mi infila la mano fra i capelli, dietro la nuca, mi solleva la testa per baciarmi. Era ora. L'altra mano l'ha parcheggiata sotto il mio sedere, che tanto è praticamente tutto scoperto, e prende a passeggiarmi le dita nel solco fra le natiche, ad accarezzarmi giusto dove tutto è molto più caldo, e bagnato, tentando ogni apertura, frugando con dolcezza, finché perdo un filo il controllo e gli mordo un labbro. Forte. Trasale, ma fortunatamente gradisce, e ricambia pure, denti e lingua a stuzzicarmi la bocca e il mento, poi il collo, il capezzolo sinistro che prende a succhiare, occhi chiusi; ci gioca con tutta calma, e quando già temo che la tetta destra inscenerà uno sciopero di protesta, ci poggia sopra la mano, se la fa sparire nel palmo (sì, è piccola, e allora?) e ricomincia il giochetto dei cerchi intorno al capezzolo. Sono bagnata ovunque, roba mia o sua chissene frega, e intanto ho assunto una posizione da paresi per permettergli di raggiungere con le dita ogni millimetro fra le mie cosce scivolose. Sa dove toccare, il piccolo, e ogni volta che ripassa avanti e indietro un'onda calda mi risale la pancia, fra piacere e solletico. Sto quasi per godere, peccato che sento anche le prime avvisaglie di un crampo devastante, e se non mi sposto alla veloce mi dovrà trascinare tutta annodata in pronto soccorso... ma non è che se me lo scollo di dosso si offende? Manovra diversiva, non tanto fine ma efficace: mano che gli risale la coscia e gli si ferma sul pacco, già abbondantemente in tiro, che gli stringo dolcemente fra le dita, sussurrando: "e se andassimo di sopra?" Detto fatto: manco il tempo di salire le scale che mi spinge con una certa decisione giù sul copriletto, e se sta lì a guardarmi in piedi, con l'occhio verdolino a mezz'asta e un sorrisetto paterno sulle labbra (un filino gonfie, per via del morso di prima). Mi si sdraia addosso, quasi un metro e novanta di uomo figo e tutto mio, da farci quello che voglio: mi dico la vita è ben bella, qualche volta. Soprattutto se lui ti cerca così subito la bocca, gli occhi chiusi e le mani dappertutto, e mentre ti bacia ti toglie quel che ti era rimasto addosso, e ti tocca, e ti si assesta sopra per farti sentire il cazzo duro per tutta la sua lunghezza larghezza e spessore, strusciandotelo sulla coscia nuda come il più consumato degli stripteaseurs. E poi scende con le labbra, si strizza le tette fra le mani e le prende in bocca, ci passa la lingua in mezzo e sopra, scende ancora, sento tutta la scia della sua saliva sulla pancia, si perde un po' nell'ombelico ma alla fine alla passera ci arriva, eccome se ci arriva, mi accarezza la piega della coscia con la bocca e la lingua, mi sporgo a guardare la sua bella testa fra le gambe, che lui mi apre spingendoci contro la mano aperta. Bacia e lecca e succhia da padreterno, il piccino, e quando mi infila dentro due dita ho ormai accantonato ogni mio residuo pregiudizio nei confronti degli ingegneri. Gli accarezzo debolmente i capelli, impigliandomi nei ricci, mentre lui finalmente mi scopre il clitoride, lo guarda un attimo come fosse il santissimo e poi lo prende in bocca, facendomi perdere ogni controllo delle mie funzioni mentali. Godo, godo un sacco, godo talmente tanto che quasi mi preoccupo: che mi ha fatto, il benedett'uomo, la macumba? Ma tutto, purtroppo, ha una fine, e, in preda ad un attacco di riconoscenza, e lo scosto per andargli sopra. Mi inginocchio a cavalcioni del suo bacino, gli slaccio i calzoni: meraviglia delle meraviglie, ha il cazzo ancora in tiro come prima, non come certi ometti che conosco io, che a leccare la figa si annoiano e gli sviene il pisello. Mi metto ostentatamente le dita in bocca, me le lecco con calma e poi comincio ad accarezzarglielo, sempre continuando a fissarlo. Ma lui gli occhi li chiude, stellina, e allora tanto vale mettersi comoda e ricambiare il favore. Mi fermo un momento a guardarlo, il suo cazzo, con le mie dita intorno; non sarà colossale ma ci si può divertire, e anche parecchio, direi. Ci giochicchio un po', in punta di lingua intorno al glande e poi giù fino in fondo, lo prendo appena in bocca e lo rilascio. Lo sento irrigidire gli addominali ogni volta che me lo infilo in bocca tutto, e un indistinto mormorio gli sorge dal fondo della gola, roba del tipo "mmmhah che brahvammmh--" Ecco, bravo, fammi il tifo, che io sono una che le lodi la stimolano a dare il meglio di sè. Sicché mi metto d'impegno, alterno bocca, lingua e dita fradice che ogni tanto gli infilo in bocca, mi lascio scivolare il suo cazzo contro il palmo e poi lo riprendo, lo risucchio lentamente, un millimetro alla volta, e poi a tradimento lo accolgo tutto fino in gola, strappandogli ogni volta via tutto il fiato dai polmoni. Il giochetto va avanti a lungo, anche perché ogni volta che mi accorgo che sta per venire cambio ritmo, o movimento; lui sbuffa e ride, ma mi lascia fare. I ricci biondi del suo pube sono zuppi di sudore e di saliva: decido di esagerare, e con le dita gli tento con cautela l'ingresso posteriore. Lui si irrigidisce appena, non so se è pudore o sono le unghie lunghe, poi si rilassa; il gioco della mia bocca e del mio dito si fa ritmico, incalzante. Tengo il suo cazzo in bocca, lo stuzzico con la lingua senza mai mollarlo. L'ingegnere intanto è passato dalle parole compiute alle vocali, più o meno aspirate, ma ha la correttezza di avvisarmi prima di venirmi in bocca: un'operazione abbastanza lunga, e tutto sommato non poi entusiasmante. Naturalmente, parlo per me. Lui sembra contento, direi. Per il momento prendo fiato, scivolo verso il bordo del letto. Lo guardo. Inerte, occhi chiusi. Bene, mi arrischio a scendere in cucina, speriamo non si offenda se non lo assisto nel post-orgasmo. Una coca e sei minuti dopo, lui è sempre immobile e a occhi chiusi, spiaccicato per tutta la sua lunghezza di traverso sul mio letto. Mi ci raggomitolo a fianco, mi struscio, gattesca che più non si può, lo solletico piano, elaborando languide fantasie sul prosieguo della serata. Lo accarezzo. Mi respira nell'orecchio, con un ritmo inquetantemente regolare. Ohè, ciccio, vabbè la curva discendente del maschio, ma, per tutti i rapporti Kinsey, non c'avevi 26 anni, te? Dov'è finita tutta quella frenesia che avevi addosso mezz'ora fa? Lo pizzico decisamente, e con cattiveria, ottenendo come unico risultato che si gira a pancia sotto, semitravolgendomi, e inizia pericolosamente a russare. Poche balle, moretta: il piccolo, al momento, DORME. E con l'alcol che ha in corpo chissà quando si sveglia, pure. Se c'abbiam fortuna, domattina per colazione. Ma io lo aspetto al varco, come no. Intanto, vassapere se a quest'ora faccio ancora in tempo a vedere Marzullo. 4840 3 12 anni fa