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Miscellaneous

la signora delle pulizie

Vivendo da solo, le elementari esigenze domestiche sono molto ridotte. Tuttavia ho in odio alcune di esse che, piuttosto di farle, mi invento le scuse più improbabili per procrastinarle. Pulire la casa e stirare non sono attività che abbia mai amato: svuoto con più piacere la fossa settica, per dire.
Ho sparso la voce in paese che cercavo una persona per aiutarmi in queste faccende, per sostituire la signora che veniva prima e che ultimamente si era resa irreperibile; ho scoperto poi che aveva trovato lavoro in fabbrica fuori zona e quindi aveva giocoforza eliminato tutti quei lavoretti in giro, tra cui il mio.
Dopo qualche giorno, una amica mi dà un numero di telefono di una signora che si rendeva disponibile per le faccende domestiche e così la chiamo.
Ci troviamo in casa mia, le mostro le stanze, parliamo dei lavori da fare e di quando cominciare. Ci accordiamo per rivederci la settimana successiva.
La mattina che si presenta, non prestissimo, m’ero attardato a letto e qundo suona ero ancora in vestaglia. Vedo che è sicura di sé: si muove con destrezza e va al pundo delle cose. Cè un particolare però, che ha attirato con magnetismo irrefrenabile la mia attenzione: la felpa indossata per il lavoro lasciava intravvedere due formatissimi e incredibilmente turgidi capezzoli che, nel bianco della blusa, risaltavano in modo imbarazzante (per me).
Col passare dei giorni, e con una reciproca conoscenza che inevitabilmente aveva ridotto le distanze (sempre mantenendo un rispetto deferente), ero riuscito a aumentare le occasioni di collaborazione e di vicinanza. Lei si alzava sempre molto presto poiché altre collaborazioni domestiche le imponevano degli orari antelucani e così si era resa disponibile a passare da casa mia, e già alle sei di mattina mi preparava il caffè. Certo non disdegnavo di rimanere nel torpore del letto ancora qualche istante e infatti, una mattina, con l’asssertiva determinazione del suo carattere, si avvicinò al letto e, prendendo il piumino con una mano, lo sollevò con forza lanciandolo fuori dal letto e, col cipiglio di un sergente istruttore mi tuonava “su, su, dormiglione, c’è un montagna di cose da fare…! Nel mentre che la coperta svolazzava, credo si sia accorta di essersi spinta un po’ oltre: come nei filmini degli anni ‘70, la mia “morning glory” si svelava nella sua interezza e, senza nulla poter fare, notai un velo di rossore nel suo viso.
Con nonchalance si diresse in un’altra camera senza dir nulla, così ebbi il tempo di abbigliarmi e, presa la vestaglia, mi sedetti a sorbire il caffè fumante.
Quell’episodio avrebbe potuto raffreddare una confidenza appena accennata, notai invece un differente percorso nei nostri comportamenti. In una miriade di situazioni, osava un po’ di più: una battuta leggermente salace, una toccata più persistente, uno sguardo più lungo. Ed io mi sentivo imbrigliato in questa rete di non detto e sentivo un piacere intrigante che è facile scambiare per attrazione.
Il sorriso era esibizione costante di attenzione ma non mascherava la sua capacità di dominare la situazione senza voler mai sembrare subirla. Il rapporto di collaborazione configurava pur sempre un ruolo subordinato, ma era fin troppo evidente che il carattere era indomito e non si faceva scrupolo di mostrare una qualche ruvidità nei miei confronti.
Una mattina che stava staccando, da sopra una scaletta di legno, le tende della camera, successe che uno scalino si ruppe e, perdendo l’equilibrio, cadesse (senza conseguenza alcuna!) direttamente sul letto. Sentito il trambusto, corsi al piano di sopra e notai che stava seduta sul letto, coi piedi per terra e l’espressione molto corrucciata.
Vedendomi arrivare mi incollò gli occhi addosso e mi rimproverò con asprezza per averle dato una scala difettosa (lo sapevo, ma per la pigrizia ne dilazionavo la riparazione), ed a causa di questo aveva rischiato di rompersi l’osso del collo. Miodio, pensai, ora questa se va e rimango di nuovo a piedi. Con mia meraviglia mi chiese (mi impose!) di avvicinarmi a lei; appena le fui vicino mi ordinò, col tono di chi non accetta repliche, di togliermi la vestaglia. Obbedii meccaicamente: gli eventi procedevano con maggiore velocità di quanto riuscissi e interiorizzare; mi abbassò il pigiama e mi forzò a distendermi sulle sue ginocchia. Prese le mie mani e le serrò dietro la mia schiena (sembrava una morsa, quella mano) e cominciòa sculacciarmi con metodo ma con molta energia. Mi obbligò a contare ad alta voce le manate: arrivata a trenta si fermò. “Ora deve ringraziarmi per la lezione”, sentenziò. Borbottai qualcosa, stranamente incespicando nella frase che lì per lì abborracciai. Rivestendomi mi accorsi che, disteso sopra le sue gambe, la mia morning-glory le aveva lasciato un vasto alone umido proprio lì, al punto che forse non era tutta farina del mio sacco.


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